Ortopediatria

L’ecografia per la Displasia delle anche: idee chiare, regole precise… e errori da evitare!

Molti operatori e genitori sono scettici sull’uso dell’ecografia, ritenuta troppo «operatore-dipendente».

Il problema in realtà non è l’ecografia…ma come la stiamo utilizzando in Italia!

L’ecografia rappresenta lo strumento più preciso e innocuo (non vengono utilizzate radiazioni ionizzanti) per diagnosticare tutte le forme di lussazione, immaturità e displasia delle anche neonatali…a patto che si rispettino regole precise! 

Negli ultimi trent’anni l’impiego dell’esame ultrasonografico e in particolare della metodica di Graf  nello studio dell’anca infantile ha rivoluzionato la diagnosi e conseguentemente il trattamento della displasia delle anche.

In passato il gold standard nella diagnostica di questa patologia era l’esame radiografico, che ancora riveste un ruolo importante nel monitoraggio di eventuali esiti a distanza, nel follow-up e nel documentare la completa guarigione nelle forme più gravi.

Nella fascia d’età tra 0 e 5-6 mesi di vita però, l’esame ecografico ci fornisce molte più informazioni,  permette infatti  di visualizzare con precisione tutte le componenti, mineralizzate e non, dell’anca infantile e di riconoscere ogni alterazione dell’articolazione coxo-femorale fin dai primi giorni di vita senza sottoporre il bambino all’esposizione di radiazioni ionizzanti.

L’esame ecografico dunque riveste un ruolo chiave fino a circa 5-6 mesi di vita, perché a partire da questa età molte strutture anatomiche dell’anca, che alla nascita sono costituite da cartilagine, ossificano e questo rappresenta un ostacolo alla corretta visualizzazione di tutte le componenti anatomiche che vogliamo valutare. In realtà, non in tutti i casi questo avviene ai 5-6 mesi: esiste una variabilità tra un bambino e l’altro e in qualche caso è possibile visualizzare adeguatamente le strutture anche in bambini più grandi di 6 mesi.

LE TECNICHE ECOGRAFICHE PER LA DIAGNOSI DELLA DISPLASIA DELLE ANCHE

Esistono diverse possibili tecniche di studio ecografico, che hanno avuto diffusione diversa in differenti parti del mondo.

Le tre tecniche più utilizzate sono le seguenti:

1) tecnica di Harcke (metodica utilizzata principalmente negli USA): valuta con differenti scansioni, longitudinali e coronali, con coscia estesa e flessa a 90° sul bacino, la stabilità della testa femorale in condizioni di riposo e sotto stress;

2) tecnica di Morin-Terjesen (utilizzata prevalentemente nei paesi scandinavi): basata sul calcolo della percentuale di copertura ossea della testa femorale;

3) tecnica di Graf: utilizzata inizialmente nei paesi di lingua tedesca e in Italia, ma attualmente diffusa in tutto il mondo. Questa metodica, di rapida esecuzione e ben standardizzata, consente di individuare con precisione e dettaglio la morfologia di tutte le componenti dell’articolazione e, attraverso la misurazione angolare della componente ossea e cartilaginea dell’acetabolo, di classificare i quadri normali e quelli patologici secondo criteri di progressiva gravità.

LA TECNICA DI GRAF

Entriamo nel dettaglio della tecnica di Graf per la displasia delle anche, la più utilizzata in Italia, descrivendone gli aspetti fondamentali e ricordando che tale metodica è quella abbracciata nel 2019 dalle Raccomandazioni congiunte per lo screening della displasia dell’anca delle società scientifiche italiane di Ortopedia Pediatrica, Pediatria e Radiologia: si rimanda alla scheda relativa.

Sottolineiamo fin da subito che al fine di evitare errori diagnostici, è fondamentale la scrupolosa adesione al metodo e quindi la formazione di chi eseguirà l’esame (che sia radiologo, ortopedico o pediatra, poco importa, purché sia adeguatamente formato a tale metodica).

Questa metodica prevede il posizionamento del bambino su un fianco a 90°, possibilmente all’interno di un cuscino divaricatore che aiuti a mantenere tale posizione. L’arto da esaminare verrà mantenuto dell’esaminatore semi-esteso e in lieve intrarotazione con la mano libera dalla sonda. Per ottenere una scansione  desiderata cioè quella coronale, la sonda dovrà essere tenuta verticale con direzione latero-laterale.

La sonda necessaria per eseguire l’ecografia è quella lineare multifrequenza da 7.5 a 10 MHz.

La scansione latero-laterale centrata nel fondo dell’acetabolo è quella che ci permette di identificare tutti i reperti anatomici descritti dalla check-list 1 ed è definita piano standard.

Nella check-list 1 troviamo infatti tutte le strutture che devono risultare ben definite e riconoscibili nell’ecografia delle anche del neonato e cioè: 

  • La testa del femore 
  • Il fronte di ossificazione metafisario (il confine ossificato prossimale della diafisi femorale) 
  • La plica di riflessione sinoviale distale alla base del collo femorale 
  • La capsula articolare 
  • Il “labrum”: l’estremo distale dell’acetabolo costituito da cartilagine fibro-elastica 
  • Il “tetto cartilagineo”: porzione superiore cartilaginea dell’acetabolo interposta fra il “labrum” ed il “tetto osseo” 
  • Il “tetto osseo”: porzione supero-interna dell’acetabolo costituita da tessuto osseo 
  • L’ala iliaca 

Il piano standard è identificabile per la presenza nell’immagine di 3 parametri: ala iliaca rettilinea, visualizzazione definita del labrum, visualizzazione definita del fondo dell’acetabolo (parte inferiore della componente iliaca ossificata dell’acetabolo). Questi tre elementi rappresentano la check-list 2.

Parte integrante della metodica e l’esecuzione della prova da stress e cioè la manovra di Barlow sotto esame ecografico per verificare la stabilità dell’anca nella coppa acetabolare.

Per una diagnosi corretta di fronte a un’immagine ecografica, il medico che eseguirà o valuterà l’esame dovrà giudicarla seguendo una precisa sequenza che prevede:

– la descrizione dettagliata dei rapporti e della morfologia dei capi articolari dell’anca (ciglio, tetto osseo, tetto cartilagineo, ecc), a riposo e dopo “stress”;

– la misurazione degli angoli α e β  che sono gli angoli che descrivono in gradi rispettivamente l’inclinazione della componente ossea e quella cartilaginea del tetto acetabolare su un’ immagine ecografica ottenuta nel piano standard; 

– e infine la tipizzazione delle anche in una delle 10 classi di Graf. 

Un referto ecografico dunque dovrebbe sempre riportare: 

– La descrizione dei rapporti fra la testa del femore e la componente ossificata dell’acetabolo; 

– La descrizione della conformazione del tetto acetabolare osseo; 

– La descrizione della conformazione del tetto acetabolare cartilagineo; 

– La descrizione della conformazione del ciglio osseo; 

-Il valore degli angoli α e β e il tipo ecografico corrispondente secondo la classificazione di Graf; 

– Il risultato della prova da stress; 

– Le conclusioni diagnostiche sintetiche (anche normali, anche immature, anche patologiche). 

GLI ERRORI PIÙ COMUNI

Gli errori che si ritrovano più frequentemente nella pratica ecografia per la diagnosi della displasia delle anche:

La valutazione di ecografie eseguite su piani di scansione non corretti (anteriore, posteriore) o in cui alcune strutture anatomiche (check-list 1) non siano identificabili. In questi casi sarà necessario scartare l’immagine e ripetere l’esame

Un altro errore ricorrente è rappresentato da linee tracciate in modo scorretto, a causa delle quali potrebbero risultare angoli angoli α e β non coerenti con la valutazione morfologica dell’anca.

COSA POSSIAMO FARE PER MIGLIORARE LA SITUAZIONE ATTUALE?

La strategia ideale per risolvere il problema delle ecografie “errate” potrebbe essere (come avviene attualmente in Austria e in Germania con ottimi risultati) quella di creare una rete di ecografisti certificati in fase iniziale e periodicamente rivalutati da una commissione di esperti. Purtroppo questo passaggio ha sempre trovato delle grosse difficoltà in Italia e si è sempre arenato sul nascere.

Un’alternativa a basso costo facilitata dall’utilizzo del web e dalla nascita di gruppi di pazienti/genitori è sicuramente quella di consigliare centri con affidabilità riconosciuta nell’esecuzione delle ecografia delle anche neonatali.

E’ inoltre fondamentale creare delle reti strettamente connesse tra chi esegue l’esame ecografico e l’ortopedico esperto in displasia delle anche per l’eventuale necessità di trattamento.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

Atti G, Bonforte S. Raccomandazioni per l’esecuzione e l’interpretazione dell’esame ecografico nella diagnosi della displasia evolutiva delle anche (Gruppo di studio di ecografia pediatrica, Società Italiana di Pediatria) LINK

Agostiniani R, Atti G, Bonforte S, Casini C, Cirillo M, De Pellegrin M, Dibello D, Esposito F, Galla A, Marrè Brunenghi G, Romeo N, Tomà P, Vezzali N, Raccomandazioni per la diagnosi precoce della displasia evolutiva dell’anca. Documento di consenso intersocietario del gruppo di lavoro sulla displasia evolutiva dell’ anca (DEA). Area Pediatrica vol.21 n.2 aprile giugno 2020

Graf R. Hip sonography: background; technique and common mistakes; result; debate and politics; challenges. Hip Int 2017;27:215-19

Graf R, Mohajer M, Plattner F. Hip sonography update. Quality-management, catastrophes – tips and tricks. Med Ultrason. 2013;15(4):299-303. doi:10.11152/mu.2013.2066.154.rg2

Graf R, Lercher K, De Pellegrin M, Tschauner. Manuale sintetico ad uso didattico per i corsi di ecografia dell’anca secondo Graf

De Pellegrin M, Tessari L. Early ultrasound diagnosis of developmental dysplasia of the hip. Bull Hosp Jt Dis. 1996;54(4):222-225.

L’esame clinico e la Manovra di Ortolani per la Displasia delle Anche: cosa sapere e gli errori da evitare

Un bambino affetto da displasia evolutiva dell’anca, può essere spesso individuato grazie all’esecuzione di un corretto esame clinico.

L’esame obiettivo delle anche (se correttamente eseguito) permette di identificare la quasi totalità  dei casi di lussazione o di anche lussabili, consentendo di indirizzare precocemente verso l’esame ecografico e giungendo dunque a un trattamento immediato e meno invasivo.

L’esame clinico invece risulta molto meno efficace nell’identificazione dei casi di displasia dell’anca (la testa del femore è centrata correttamente nell’acetabolo ma quest’ultimo non è adeguatamente sviluppato).

L’esame clinico deve essere effettuato poche ore dopo la nascita dal neonatologo, che eseguirà all’interno dell’esame obiettivo neonatale, anche le manovre cliniche per la displasia delle anche: eventuali casi sospetti vengono inviati verso l’esecuzione di un’ecografia e verso lo specialista ortopedico. L’esito di questa valutazione deve essere registrato sul libretto pediatrico. 

L’esame clinico delle anche dovrà poi essere ripetuto dal neonatologo/pediatra ad ogni bilancio di salute dei primi 6 mesi di vita. 

La visita dovrebbe essere effettuata in un ambiente adatto al bambino (luce soffusa, presenza dei genitori, riduzione al minimo dei rumori) e in uno stato possibilmente di veglia quieta o di dormiveglia. Il rilassamento muscolare facilita l’esecuzione dell’esame clinico. Se il bambino è agitato infatti, molti elementi che cercheremo di osservare non potranno essere adeguatamente apprezzati.

La valutazione clinica delle anche nella diagnosi delle displasia dell’anca si articola  in più fasi:

L’ispezione globale in cui il medico valuterà la motilità degli arti, che deve essere simmetrica e ampia.

La valutazione della presenza dell’asimmetria delle pliche cutanee: un segno molto usato nel passato. L’asimmetria della cute dell’interno coscia è un reperto comune anche in bambini senza la displasia delle anche. L’asimmetria della cute dei glutei da sola, non alcun significato: può essere un segno di lussazione, ma solo se si associa a ridotta abduzione e segno di Galeazzi positivo. Non va quindi interpretata come dato a sé ma sempre all’interno del resto dell’esame obiettivo. 

Il segno di Galeazzi: Con il bambino posto in posizione di riposo, le anche vengono flesse a 90 gradi e mantenute addotte e si verifica che le ginocchia siano allo stesso livello.  In caso di sublussazione o lussazione l’altezza delle ginocchia rispetto al piano di appoggio può risultare differente, suggerendo una risalita della testa del femore. Questo segno potrebbe essere negativo in caso di semplice instabilità dell’articolazione, per cui è sempre consigliato eseguire gli altri test. Il segno di Galeazzi sarà positivo anche in presenza di differenza di lunghezza dei femori.

Un elemento molto importante è la valutazione dell’abduzione delle anche cioè il grado di divaricazione delle anche che potrebbe essere ridotto o, nei casi più gravi, impossibile (blocco articolare). La normale abduzione in un bambino sano alla nascita dovrebbe essere simmetrica e di almeno 60° (la maggior parte dei bambini raggiunge gli 80°). Un’asimmetria tra i due lati (si parla di limitata abduzione quando si riscontra una riduzione di circa 20° di divaricazione fra un’anca e l’altra) deve far sospettare una displasia dell’anca dal lato che presenta la limitazione. In caso di limitazione bilaterale, occorre sospettare una displasia dell’anca bilaterale.

A completamento di questa prima valutazione ci sono i test speciali e cioè:

La manovra di Ortolani (o dello scatto in entrata): questo test ha la funzione di individuare anche lussate ma riducibili. Viene effettuato con il bambino in posizione di riposo supina, su un piano rigido, con le anche flesse a 90° e addotte sulla linea mediana. L’esaminatore pone le mani, con l’incavo tra primo e secondo dito, sul ginocchio del bambino, poggiando il dito medio sul grande trocantere. Ogni anca viene esaminata singolarmente (l’altra anca deve essere mantenuta abdotta per stabilizzare il bacino). Con un movimento lento e controllato, si effettua una lieve trazione e una abduzione dell’anca, fino a che l’arto inferiore non tocchi il piano d’appoggio.

In un anca sana il movimento appare fluido e il test risulta negativo. In un’anca dislocata ma riducibile, la testa del femore scorre sulla doccia cartilaginea ipertrofica che si è formata sul bordo dell’acetabolo, e vi si riposiziona all’interno, riacquisendo la posizione corretta e generando uno “scatto”, una sensazione tattile (e talvolta sonora), apprezzabile col dito medio: il segno di Ortolani è detto positivo.

La prima traduzione in inglese del termine italiano, usato da Ortolani per descrivere tale sensazione palpatoria, fu “click”: ciò diede luogo ad una serie di fraintendimenti, dovuti al fatto che lo stesso termine veniva usato per descrivere gli scrosci articolari (ben diversi dalla sensazione dello scatto). 

Gli scrosci articolari (in inglese “clicks”) sono infatti sensazioni palpatorie dovute allo scorrere dei tendini nelle proprie sedi anatomiche. Sono sempre stati indice di sospetto per displasia dell’anca nel passato, soprattutto per esaminatori inesperti. Confusi per una manovra di Ortolani positiva, sono stati spesso motivo di invio allo specialista di bambini sani, addirittura anche quando venivano rilevati in sedi diverse dall’anca.

La manovra di Barlow (o dello scatto in uscita) invece ha lo scopo di individuare quelle anche in cui la testa del femore è correttamente centrata nell’acetabolo, ma può essere lussata (anche instabili e lussabili). E’ l’opposto della manovra di Ortolani e anche in questo caso si esamina un’anca alla volta. Si parte con un’anca completamente abdotta e adducendo le cosce e portandole verso la linea mediana, si esercita contemporaneamente una leggera pressione sul ginocchio, dirigendo la forza in senso antero-posteriore e avvertendo così la sensazione palpatoria di uno scatto in uscita. La testa del femore tornerà al suo posto non appena la pressione verrà rilasciata, generando anche in questo caso una sensazione palpatoria.

Questi test sono validi nel bambino piccolo (pochi giorni/poche settimane, al massimo pochi mesi di vita): tendono a modificarsi nel tempo scomparendo tra una visita e l’altra. Qualche autore descrive la loro scomparsa dopo la sesta settimana di vita a causa di una diminuzione fisiologica di elastina, che implica una maggiore rigidità. Il fatto che possano essere presto non più apprezzabili sottolinea l’importanza di un corretto esame obiettivo eseguito il prima possibile.

Un concetto importante è che i segni clinici sono presenti di frequente in bambini con anche patologiche, ma la loro assenza non esclude la diagnosi di displasia delle anche, da cui l’importanza dell’ecografia per casi di questo tipo. 

In conclusione, esame clinico ed ecografia delle anche non solo non si escludono a vicenda, ma sono complementari. L’esame clinico non è in grado di evidenziare i quadri di displasia delle anche senza instabilità che si evidenziano invece con l’ecografia. L’ecografia, se eseguita correttamente, consente di diagnosticare sia i quadri di immaturità, che di displasia che di lussazione, ma se eseguita senza l’ausilio di criteri clinici espone al rischio di un incremento di trattamenti precoci non necessari e a un’elevata necessità di ripetizione di esami strumentali. 

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

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Ortolani M. Congenital hip dysplasia in the light of early and very early diagnosis.  HYPERLINK “http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/954324″Clin Orthop Relat Res. 1976 Sep;(119):6-10.

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Lo screening per la Displasia delle Anche: è tempo per un programma standardizzato condiviso!

Se riuscissimo a organizzare alla nascita un percorso adeguato di screening della displasia delle anche, ridurremmo drasticamente le conseguenze di questa patologia (interventi chirurgici sulle anche dei bambini, protesi di anca in età adulta, disabilità e zoppie legate a questa condizione, ecc)!

Lo hanno sottolineato diversi studi e l’esperienza di altri Paesi dove i programmi di screening sono già attivi da anni. 

Invece purtroppo, la situazione attuale in Italia è quella di un’assoluta mancanza di regole comuni e di controlli sull’argomento.

In un nostro recente lavoro di analisi della situazione attuale di un’importante regione italiana, è emerso un quadro di totale disomogeneità di comportamento sotto ogni punto di vista (modalità di screening, tempistiche delle ecografie, pagamento del ticket, modalità di trattamento, largo uso di doppi pannolini e mutandine, trattamenti blandi protratti anche per gradi elevati di displasia, assenza di reti di trattamento, ecc)

E allora cosa possiamo fare per migliorare la situazione?

Quello che non molti sanno è che recentemente c’è stata un’importante novità: per la prima volta nel 2019 le tre società scientifiche interessate alla problematica (Società Italiane di Pediatria, Radiologia Medica e Ortopedia Pediatrica) hanno stilato delle raccomandazioni congiunte che hanno tracciato la strada ideale da percorrere.

Il nostro ruolo è quindi quello di diffondere il più possibile queste raccomandazioni a tutti i livelli sanitari per arrivare a realizzarle concretamente.

Cerchiamo di comprendere insieme gli aspetti principali del problema.

Con il termine displasia evolutiva delle anche facciamo riferimento a un gruppo variegato di alterazioni che vanno da quadri più lievi in cui la testa del femore è correttamente localizzata nell’acetabolo, ma in cui quest’ultimo non è sufficientemente sviluppato (displasia) a quadri più severi in cui la testa femorale è solo parzialmente (sub-lussazione) o addirittura non è contenuta all’interno dell’acetabolo (lussazione). Vedi scheda relativa

La displasia delle anche ha delle caratteristiche per le quali può essere diagnosticata precocemente:

  • è “ congenita” (cioè presente alla nascita) nella stragrande maggior parte dei casi;
  • si accompagna nella maggior parte dei casi a una obiettività positiva alla nascita (cioè visitando il bimbo alla nascita possiamo ritrovarne i segni clinici);
  • può essere valutata accuratamente con un mezzo diagnostico non invasivo e di pronta disponibilità, l’ecografia.

Inoltre, sappiamo che più precocemente viene avviato il trattamento della displasia delle anche (idealmente entro la 6^ settimana di vita), meno invasivi saranno i trattamenti e migliori saranno i risultati e la prognosi a distanza: questo consentirà di evitare l’usura precoce dell’articolazione (artrosi) e nelle forme più severe la comparsa di zoppia e limitazioni funzionali.

Queste ed altre caratteristiche (anche di ordine economico) fanno sì che la displasia delle anche sia candidata ideale per un programma di screening standardizzato. 

Rimane però aperto il dibattito riguardo a come effettuare questo screening. Le possibili opzioni a disposizione sono:

  • Screening clinico universale: cioè sottoporre tutti i neonati a visita ed usare l’esame clinico per porre diagnosi di displasia delle anche;
  • Screening ecografico selettivo: sottoporre ad ecografia solo i neonati che presentano fattori di rischio o esame clinico positivo;
  • Screening ecografico universale: prevedere l’ecografia per tutti.

Le modalità adottate sono state differenti nei vari Paesi e hanno subìto una evoluzione temporale anche in base ai risultati ottenuti e alle evidenze scientifiche.

Per molto tempo, in larga parte del mondo lo screening della displasia delle anche è stato condotto eseguendo la manovra di Ortolani associata a quella di Barlow.

Molti studi hanno però evidenziato il limite dello screening clinico.

Se infatti è vero che in presenza di un segno di Ortolani positivo l’ecografia documenta sempre la presenza di una displasia dell’anca,  l’assenza del segno di Ortolani non rappresenta una garanzia assoluta di assenza della malattia.

Inoltre, in caso di anca instabile alla nascita, il segno di Ortolani può diventare negativo dopo i primi giorni, ma questo non significa automaticamente normalizzazione del quadro, anzi, può voler dire peggioramento del quadro con irriducibilità della lussazione. 

Negli anni ’80 l’introduzione dell’esame ecografico delle anche, ha fornito una nuova opportunità quale strumento diagnostico e di screening.

Negli anni passati sono stati quindi introdotti sulla base della letteratura disponibile, programmi di screening “selettivi”, in cui la manovra di Ortolani- Barlow veniva eseguita a tutti i nuovi nati mentre l’esame ecografico veniva riservato ai bambini con fattori di rischio (presentazione podalica e familiarità di I grado) o clinica positiva.

Un esempio è quello proposto da un autorevole gruppo di studio in Emilia- Romagna nel 2010. Rimandiamo direttamente a quel documento, per l’ottima analisi della problematica e della letteratura.

https://www.saperidoc.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/623

Questo metodo di screening “selettivo” però non ha dimostrato di riuscire a ridurre significativamente il numero di diagnosi tardive e il ricorso alla chirurgia maggiore.

Il problema principale che è stato sottolineato è che molti bambini con problematiche da displasia dell’anca non presentano fattori di rischio o clinica positiva e quindi non hanno “diritto” all’esecuzione di un’ecografia; di conseguenza, se non si adottano sistemi di screening ecografico universale, questa quota di bambini rischia di sfuggire alla diagnosi e al trattamento.

Al contrario, nei paesi di lingua tedesca (Austria e Germania) in cui da anni l’esame ecografico viene eseguito a tutti i nuovi nati, indipendentemente da sesso e fattori di rischio, e in cui il sistema di screening è stato standardizzato in modo rigoroso (con la certificazione degli ecografisti) si è registrato un calo notevole del ricorso a trattamento chirurgico della displasia delle anche.

Sulla base di questi e altri dati, sono state stilate da un gruppo di esperti delle società italiane di Ortopedia Pediatrica, Pediatria e  Radiologia (SITOP, SIP, SIRM), delle raccomandazioni per la diagnosi precoce della displasia evolutiva dell’anca. Rimandiamo direttamente al documento finale, per l’analisi delle problematiche e della letteratura più recente

https://www.area-pediatrica.it/articoli.php?archivio=yes&vol_id=3362&id=33348

Riportiamo qui nel dettaglio le loro raccomandazioni finali:

  • Eseguire un esame clinico delle anche a tutti i neonati, esame che deve essere eseguito dal neonatologo o dal pediatra e opportunamente registrato.
  • Ripetere l’esame delle anche a ogni bilancio di salute per i primi 6 mesi di vita da parte del pediatra di famiglia.
  • Tutti i neonati che presentano all’esame clinico il “segno dello scatto” devono essere sottoposti ad un esame ecografico delle anche prima della dimissione dal punto nascita, o comunque entro la prima settimana di vita; l’esame deve essere opportunamente registrato.
  • Tutti i nuovi nati, indipendentemente dai fattori di rischio, devono essere inseriti in un programma di screening della displasia delle anche che preveda l’esecuzione di un esame ecografico delle anche tra le  4 e le 6 settimane di vita da parte di operatori certificati e la creazione di un registro regionale informatizzato per la raccolta dei dati dello screening 
  • I servizi sanitari devono identificare un percorso di screening di presa in carico a livello locale, condiviso tra pediatra, ortopedico e radiologo, per tutte le situazioni con esame ecografico positivo per displasia. Per esame positivo per displasia si intende un quadro ecografico di tipo IIb, IIc, D, III, IV (secondo la classificazione di Graf ); le anche di tipo IIa devono essere monitorate ecograficamente e trattate solo in assenza di segni di un’adeguata maturazione. 
  • I servizi sanitari, con la collaborazione delle società scientifiche, devono: identificare i centri idonei alla effettuazione dello screening, realizzare programmi formativi specifici per l’apprendimento dell’esame clinico ed ecografico delle anche, prevedere modalità di certificazione degli operatori dedicati all’esame ecografico e sistemi di verifica di qualità delle prestazioni erogate

Come è evidente, la strada che viene indicata è una strada impegnativa in cui non è sufficiente “consigliare un’ecografia a tutti” per risolvere il problema.

Ci sono tanti aspetti del problema che devono essere presi in considerazione (considerando che al momento attuale non abbiamo una risposta adeguata):

  • C’è un grosso problema di costi iniziali e di necessità di personale da dedicare allo screening per la displasia delle anche (ecografisti, personale dedicato alla raccolta dei dati) che spaventa gli organi sanitari centrali vista la delicata situazione economica attuale. Tali costi iniziali verrebbero ripagati nel tempo dal risparmio di chirurgia maggiore, artroprotesi e disabilità della popolazione, ma per comprendere questo c’è necessità di una politica sanitaria lungimirante.
  • La necessità di incrementare la formazione dei neonatologi e pediatri circa l’esame obiettivo delle anche.
  • La necessità di certificare gli ecografisti: come vedremo nella scheda dedicata all’ecografia, è fondamentale che le ecografie vengano eseguite rispettando dei criteri standardizzati e che l’affidabilità degli ecografisti venga verificata periodicamente. 
  • I trattamenti devono essere standardizzati: è inammissibile lasciare che i bimbi vengano trattati da personale non preparato, senza protocolli adeguati in linea con le evidenze scientifiche più recenti.
  • È importante stabilire una soglia per il trattamento al di sotto della quale i bimbi non devono essere trattati: uno dei rischi di eseguire uno screening universale è di mettere in evidenza e trattare alcuni quadri di displasia lieve delle anche che probabilmente si risolverebbero spontaneamente senza nessun trattamento; ogni trattamento implica però dei rischi (oltre che dei costi per la sanità) che devono essere evitati.
  • La raccolta sistematica dei dati per comprendere se questo atteggiamento di screening riesca a dare i suoi frutti nel tempo e per correggere eventuali errori del sistema.

I punti da migliorare sono molti e crediamo che ognuno di noi debba fare la sua parte. Anche nel suo piccolo, anche semplicemente condividendo e diffondendo queste schede il più possibile tra genitori e personale sanitario.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

Agostiniani R, Atti G, Bonforte S, Casini C, Cirillo M, De Pellegrin M, Dibello D, Esposito F, Galla A, Marrè Brunenghi G, Romeo N, Tomà P, Vezzali N, Raccomandazioni per la diagnosi precoce della displasia evolutiva dell’anca. Documento di consenso intersocietario del gruppo di lavoro sulla displasia evolutiva dell’ anca (DEA). Area Pediatrica vol.21 n.2 aprile giugno 2020

Biedermann R, Eastwood D. Universal or selective ultrasound screening for developmental dysplasia of the hip? A discussion of the key isues. J Child Orthop 2018;12:296-301.

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Furnes O, Lie SA, Espehaug B, Vollset SE, Engesaeter LB, Havelin LI. Hip disease and the prognosis of total hip replacements. A review of 53,698 primary total hip replacements reported to the Norwegian Arthroplasty Register 1987-99. J Bone Joint Surg Br 2000;83:579-86. 

De Pellegrin M, Bonifacini C. Is the acetabular maturation in severe DDH influenced by treatment at an early age? OUP 2016;7/8:408-12. 

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L’Epifisiodesi Simmetrica per correggere la differenza di lunghezza degli arti inferiori: un intervento semplice ma con regole precise!

L’epifisiodesi è un intervento chirurgico che si pone come obiettivo quello di arrestare o rallentare la crescita di una cartilagine di accrescimento. 

Le cartilagini di crescita (dette anche fisi) sono le strutture tipiche delle ossa dei bambini che consentono ai vari segmenti ossei di crescere in lunghezza. Semplificando, le fisi possono essere rappresentate come dischi di cartilagine disposti a entrambe le estremità di un osso, in cui le cellule cartilaginee si riproducono longitudinalmente e progressivamente ossificano, facendo così incrementare la lunghezza del segmento. 

Tali cartilagini sono attive per tutta la crescita del bambino e terminano la loro attività con la maturità scheletrica, quando la cartilagine si chiude e viene completamente sostituita da osso. 

Radiograficamente, essendo costituite da cartilagine (radiotrasparente) e non da osso (radioopaco), le fisi appaiono come linee più scure in prossimità delle due estremità delle ossa. 

Immagine radiografica osso del bambino

ESISTE SOLO UNA TIPOLOGIA DI EPIFISIODESI?

Gli interventi di epifisiodesi modificano l’accrescimento di una cartilagine di accrescimento rallentandone o bloccandone la crescita nel punto in cui si effettua la procedura, ottenendo risultati diversi a seconda della parte di fisi che viene interessata dalla procedura. Possiamo quindi distinguere: 

Epifisiodesi simmetrica: la fisi viene rallentata in modo simmetrico, cioè sia nella parte interna che nella parte esterna. Questo determina un rallentamento globale della crescita del segmento operato, mentre continuerà a crescere il segmento controlaterale (cioè il femore o la tibia dell’altro lato, non operato); 

Epifisiodesi asimmetrica: la fisi viene rallentata solo su un versante, mentre la restante parte di cartilagine continua a crescere normalmente. Questo determinerà un effetto di deviazione della crescita, la cui direzione dipenderà dal punto in cui è stata rallentata la crescita: se viene rallentata la parte interna, continuerà solo la crescita esterna per cui la crescita devierà verso l’interno, e viceversa. 

Epifisiodesi simmetrica (a) e asimmetrica (b) 

Epifisiodesi definitiva: viene bloccata, totalmente e in maniera irreversibile, la capacità di crescita della cartilagine

Epifisiodesi temporanea: la crescita viene bloccata (o rallentata in maniera significativa) attraverso l’uso di mezzi di sintesi differenti (cambre, viti, placche da epifisiodesi). Sarà possibile però, una volta raggiunto l’obiettivo desiderato, rimuovere i mezzi di sintesi in modo da far ripartire la crescita della cartilagine. Si tratta quindi di una procedura teoricamente reversibile. 

Presupposto fondamentale di tutte le procedure di epifisiodesi è che la cartilagine di crescita sia attiva, cioè che non solo venga effettuata una procedura di arresto su una parte di cartilagine, ma che la restante parte di cartilagine o la cartilagine di crescita dell’altro arto siano ancora attive. 

Si tratta di procedure con effetto significativo, capaci di modificare notevolmente la crescita degli arti, e che possono dare risultati notevoli con interventi chirurgici di lieve entità (per ottenere gli stessi risultati in un adulto occorrono procedure molto più indaginose e invasive). 

Allo stesso modo però, se eseguite in maniera scorretta possono avere degli esiti problematici o non essere risolutive. Per tali motivi dovrebbero essere eseguite in centri con esperienza e precedute da un’attenta analisi della problematica presente e della crescita residua. 

L’EPIFISIODESI È INDICATA PER TUTTE LE DIFFERENZE DI LUNGHEZZA DEGLI ARTI INFERIORI?

L’epifisiodesi simmetrica degli arti inferiori consiste nel rallentare la crescita di un arto, in modo da consentire all’altro arto di continuare a crescere recuperando la differenza di lunghezza (o eterometria) presente. 

Tale procedura viene riservata per il recupero di differenze di lunghezza di piccola entità, generalmente tra cm 2 e cm 3,5-4 di eterometria prevista. 

L’analisi delle diverse possibilità terapeutiche, delle diverse tipologie di eterometrie e del loro comportamento con la crescita esula dagli obiettivi di questa scheda e richiede ampia conoscenza della materia. Semplificando, esiste la possibilità di accorciare/rallentare la crescita di un arto (mediante intervento di epifisiodesi) o di allungarlo. Il trattamento di una differenza di lunghezza si basa non solo sulla eterometria attuale, ma sulla previsione di eterometria, cioè su quanto sarà la differenza di lunghezza al termine della crescita. In altri termini, se un paziente ha una eterometria di cm 2 e si prevede una dismetria finale di cm 5, il trattamento sarà diverso rispetto a un paziente in cui la eterometria è di cm 2 ma si prevede una eterometria finale di cm 2,5. 

Inoltre il trattamento sarà diverso a seconda della causa della eterometria (ipometria o ipermetria; ipoplasie, ipermetrie post-traumatiche, iperaccrescimento, esiti di distacchi epifisari, ecc.), cercando per quanto possibile di privilegiare le procedure eseguite sull’arto affetto dalla patologia rispetto alle procedure effettuate sull’arto sano. Per esempio, nei casi di patologie che determinano iperaccrescimento di un arto (macrosomie, emi-ipersomie, ecc.) si preferiranno procedure di epifisiodesi per rallentare la crescita dell’arto affetto, anche per eterometrie previste maggiori, piuttosto che procedure di allungamento dell’arto sano. I casi però andranno valutati di volta in volta, considerando anche la notevole differenza di invasività tra un intervento di epifisiodesi e un intervento di allungamento dell’arto. 

Pazienti con iperaccrescimento di un arto secondario a macrosomia (a) e lipomatosi (b) 

A CHE LIVELLO SI EFFETTUA L’EPIFISIODESI?

L’intervento di epifisiodesi simmetrica per il recupero di una eterometria  viene effettuato a livello del ginocchio, rallentando la crescita sia nella parte interna sia nella parte esterna delle cartilagini di crescita presenti a tale livello: il femore distale e la tibia prossimale. 

A seconda delle necessità, l’epifisiodesi potrà essere eseguita contemporaneamente su femore e tibia o solamente su uno dei due segmenti (la differenza di lunghezza può essere localizzata prevalentemente sul femore, o sulla tibia, richiedendo un intervento su un solo segmento; oppure può essere necessario un rallentamento su entrambe le sedi, in caso di eterometria elevata o di ritardo nella tempistica dell’intervento rispetto ai tempi ottimali). 

CHE RUOLO HA LA CORRETTA TEMPISTICA PER L’INTERVENTO DI EPIFISIODESI?

Come si intuisce, quando si parla di epifisiodesi, ci si riferisce a procedure delicate in cui il risultato è in bilico tra la mancata correzione (se l’intervento viene effettuato troppo tardi) e l’eccessiva correzione (se effettuato troppo presto). 

Per tutte le procedure di epifisiodesi è fondamentale calcolare attentamente la tempistica della procedura. Il risultato è infatti in bilico tra la mancata correzione (se l’intervento viene effettuato troppo tardi) e l’eccessiva correzione (se effettuato troppo presto).

Analizziamo le differenti possibilità:

Epifisiodesi simmetrica definitiva. Viene completamente arrestata la crescita di quella cartilagine. Può essere effettuata mediante tecnica percutanea (con un piccolo accesso) o mediante tecnica Phemister (con un accesso un po’ più ampio viene visualizzata direttamente la cartilagine di crescita e si ruota un tassello di osso in modo da creare un arresto di crescita). 

Epifisiodesi simmetrica definitiva 

In entrambi i casi l’arresto di crescita è irreversibile. Deve essere quindi effettuato solo in prossimità della maturità scheletrica, cioè poco prima che le cartilagini smettano fisiologicamente di crescere, in modo da recuperare quello che serve per pareggiare la differenza di lunghezza e non di più. Se si commette un errore nel calcolo della tempistica e una volta pareggiata l’eterometria la crescita scheletrica non è terminata (e quindi l’arto controlaterale continua a crescere), ne deriverà un accorciamento eccessivo dell’arto operato. 

Epifisiodesi simmetrica temporanea. Il rallentamento della crescita è teoricamente reversibile, ossia una volta ottenuto il pareggiamento della eterometria, è possibile rimuovere i mezzi di sintesi (placche, viti, cambre) e la crescita della cartilagine di crescita dovrebbe ripartire, offrendo così un paracadute nel caso di errore commesso nei calcoli. I mezzi di sintesi più utilizzati sono le placche per crescita guidata (ne esistono diversi modelli di diverse ditte, 8-plate, Pedi-plate, ecc.): hanno una forma a 8 e vengono posizionate a cavallo della cartilagine di crescita e fissate all’osso mediante due viti, limitando così i rischi di spostamento dei mezzi di sintesi che erano frequenti con l’uso delle cambre. 

Epifisiodesi simmetrica di femore distale e tibia prossimale (a) e solo del femore distale (b) con placche e viti 

Anche nel caso dell’epifisiodesi temporanea, la reversibilità della procedura è teorica. Una volta rimossi i mezzi di sintesi, infatti, la ripresa fisiologica della crescita della fisi rimane comunque un’incognita: è possibile che la cartilagine abbia subito un danno dalle procedure effettuate e non riprenda a crescere adeguatamente, ma anche che ricominci a crescere in maniera eccessiva con un effetto rebound (cioè rimbalzo). Perciò anche in questo caso sarebbe preferibile effettuare la procedura in prossimità del termine della crescita scheletrica e rimuovere i mezzi di sintesi una volta pareggiata l’eterometria e terminata la crescita, in modo da non correre alcun rischio. 

Per tale motivo è fondamentale che la tempistica della procedura venga calcolata nella maniera più accurata possibile. 

COME VALUTARE QUANDO FARE L’INTERVENTO DI EPIFISIODESI?

La collaborazione con i servizi di auxo-endocrinologia può essere un aiuto per valutare assieme i vari parametri di crescita e calcolare nel modo più preciso possibile la tempistica della procedura. Tra i parametri che vengono analizzati generalmente ricordiamo: 

– la velocità di crescita in altezza, si richiede ai pazienti di portare alla visita tutte le ultime misurazioni di altezza effettuate 

– lo sviluppo puberale, viene effettuata una valutazione auxologica
l’età ossea, utilizzando, a seconda dei casi, l’età al carpo, al gomito e i parametri pelvici 

– l’eterometria radiografica misurata precisamente (per questa valutazione richiediamo generalmente di fare la radiografia secondo i requisiti descritti nella figura 7)

– le previsioni di dismetria (esistono alcune tabelle che aiutano ad effettuare il calcolo, per esempio il multiplier di Paley ) 

Radiografia degli arti inferiori eseguita in piedi controllando attentamente il posizionamento degli arti:
le rotule devono essere allo zenith, cioè in avanti; le ginocchia non devono essere piegate, il valgismo o varismo eventualmente presenti non devono essere forzati o corretti;
deve essere posizionato sotto il piede dell’arto più corto un rialzo per pareggiare la differenza di lunghezza, come misurato clinicamente; devono essere visualizzati femore e tibia sulla stessa immagine e misurati; devono essere visualizzati il bacino e l’ala iliaca
per verificarne i nuclei di crescita (Risser e triradiata). 

È vero che, nonostante i calcoli, esiste nelle procedure di epifisiodesi un margine di errore legato a diversi fattori non completamente controllabili (effetto di rallentamento dei mezzi di sintesi, crescita residua delle cartilagini, ecc.). Inoltre, trattandosi di procedure di lieve entità, guadagni seppur minimi possono essere visti come un successo (una eterometria residua, al termine della correzione, inferiore a cm 1-1.5 rientra nella variabilità fisiologica di un adulto medio). 

In ogni caso è un intervento chirurgico (due se si devono anche rimuovere i mezzi di sintesi) con le sue problematiche e i suoi rischi, che non deve essere affrontato superficialmente. Secondo la nostra esperienza, calcoli fatti approssimativamente (valutando, per esempio, soltanto se le cartilagini del ginocchio sono più o meno aperte) o senza prendere in considerazione tutti i suddetti aspetti (ad esempio, basandosi solo sull’età cronologica) portano spesso a mancate o eccessive correzioni. 

COSA POTRÀ FARE MIO FIGLIO DOPO L’INTERVENTO? COME SI SVOLGONO I CONTROLLI?

Generalmente, dopo l’intervento di epifisiodesi non viene applicata alcuna immobilizzazione. Dai primi giorni dopo la chirurgia viene consentito al paziente di muovere il ginocchio, di effettuare esercizi per il recupero dell’articolarità e della forza muscolare e di alzarsi rapidamente in piedi; il paziente inizia quindi a camminare utilizzando due bastoni antibrachiali caricando progressivamente sull’arto operato. I bastoni vengono solitamente abbandonati dopo circa due settimane e il paziente riprende progressivamente una vita normale.
Tra le possibili complicanze, la più frequente è la comparsa di tumefazione a carico del ginocchio operato, di solito di lieve entità e che si risolve nel giro di qualche giorno. 

Viene stabilito un programma di controlli medici, inizialmente per verificare che il recupero della funzione del ginocchio sia regolare, poi per verificare l’effetto dell’intervento. 

Per monitorare l’evoluzione della correzione i controlli si avvalgono, oltre che delle misurazioni cliniche, di esami radiografici, sia del ginocchio (per verificare che i mezzi di sintesi siano posizionati correttamente), sia panoramiche con misurazioni per verificare che il recupero della eterometira stia procedendo come previsto. 

In base al recupero della eterometria, il rialzo utilizzato dal paziente verrà progressivamente ridotto di altezza. 

Alcune possibili problematiche devono essere valutate ai controlli e possono portare il medico a decidere di intervenire nuovamente sull’arto: un recupero della dismetria più rapido o più lento del previsto, un effetto asimmetrico dei mezzi di sintesi (se la placca mediale agisce diversamente da quella laterale, l’arto può progressivamente deviarsi), ecc. 

Nel complesso, come più volte sottolineato, l’epifisiodesi rappresenta una procedura non invasiva per il paziente. Soprattutto se la si confronta con le procedure inverse, cioè di allungamento dell’altro arto (che prevedono interventi più invasivi e un impegno significativo per il paziente), questa procedura è sicuramente preferibile. Ma deve essere chiaro che non si tratta di un intervento privo di rischi e che non dovrebbe essere eseguito, salvo casi specifici, per differenze di lunghezza notevoli. Un marcato rallentamento della crescita del ginocchio infatti, può avere ripercussioni su altri aspetti, come la stabilità legamentosa e la morfologia dell’epifisi e creare un danno locale notevole.

Deformazione epifisaria e lassità articolare in seguito a interventi di epifisiodesi eseguiti in altra sede 

 

Giugno, il mese della scoliosi. Parliamo di prevenzione con il Dr. Francesco Lolli

Sono moltissimi i bambini e gli adolescenti che ogni anno ricevono una diagnosi di scoliosi. Spesso però, per cattiva informazione o sottostima del problema, la patologia viene sottovalutata e trattata in maniera non adeguata (o non trattata affatto). 

Ma cosa si intende per scoliosi

La colonna vertebrale, che in condizioni normali si presenta perfettamente dritta sul piano frontale (vale a dire vista da davanti), può avere in alcuni casi uno sviluppo asimmetrico, tale da condurre alla comparsa di una deformità più o meno evidente. 

Nell’80% dei casi circa dei casi di scoliosi non è riconoscibile una causa sottostante (come ad esempio una malformazione congenita): parliamo in questo caso di scoliosi idiopatica

Con questa scheda cerchiamo di rispondere ad alcune delle tante domande e dubbi sulla scoliosi!!

QUALI SONO I SEGNI CHE POSSONO/DEVONO ALLARMARE I GENITORI? 

La comparsa di asimmetrie nei fianchi e nelle spalle, o di un gibbo costale (in genere maggiormente evidente quando il bambino flette il tronco), deve far sospettare la presenza di una scoliosi. In questi casi, è necessario eseguire una visita specialistica, alla quale seguiranno gli eventuali accertamenti del caso.

COME SI VALUTA LA PRESENZA DI SCOLIOSI?

Il primo passo è sempre l’esame clinico. Lo specialista ortopedico andrà a ricercare segni clinici specifici, quali asimmetrie dei triangoli della taglia (cioè dei profili dei fianchi), del profilo delle scapole o dei livelli delle spalle. Inoltre effettuerà test specifici, quali l’Adam Test (valutazione del paziente a tronco flesso) da in piedi e da seduto. La valutazione ortopedica è inoltre importante per individuare la presenza di possibili anomalie associate, quali differenze di lunghezza degli arti inferiori, alterazioni cutanee (macchie color caffe-latte, segni di disrafismi spinali …), alterazioni dei piedi (es. piede cavo), ed in generale ogni possibile segno che possa ricondurre ad una causa sottostante la scoliosi.

LE RADIOGRAFIE NELLA SCOLIOSI VANNO SEMPRE ESEGUITE?

Sarà l’ortopedico, a seguito della visita, ad indicare l’esecuzione di ulteriori accertamenti, qualora ritenuti necessari. L’esame di primo livello è la radiografia completa della colonna, eseguita con paziente possibilmente in piedi (in ortostatismo). Questa consente di valutare globalmente la colonna e di quantificare l’entità della scoliosi, mediante misurazione dell’angolo di Cobb. Si parla di vera scoliosi in presenza di una deviazione laterale della colonna che supera i 10°, misurati secondo il metodo di Cobb. Inoltre la radiografia consente di valutare ulteriori parametri, quali ad esempio il grado di sviluppo osseo e la crescita residua.  

A CHE ETÀ COMPARE LA SCOLIOSI

La scoliosi idiopatica può comparire in qualunque fase dello sviluppo, con una predilezione per l’età adolescenziale: secondo le casistiche americane, l’85% delle curve sembra esordire dopo i 10 anni di età. La prevalenza nella popolazione è pari allo 0,5-3%, che scende all’1.5-3‰ per le curve più gravi (superiori ai 30° Cobb). Le femmine sono colpite 6 volte più dei maschi.

LA SCOLIOSI È UNA PATOLOGIA EREDITARIA? 

Pur avendo una base genetica (non ancora del tutto definita), la scoliosi non si trasmette per via ereditaria. Esiste però una familiarità, ovvero una predisposizione, se altri membri della famiglia ne sono affetti.

MIO FIGLIO HA LA SCOLIOSI. IL NUOTO PUÒ AIUTARLO?

No, lo sport non influenza (né in senso positivo, né in senso negativo) l’evoluzione della scoliosi.

LA CATTIVA POSTURA SUI BANCHI DI SCUOLA PUÒ DETERMINARE LA COMPARSA O IL PEGGIORAMENTO DI UNA SCOLIOSI? E LO ZAINO?

No, la scoliosi non risente di fattori ambientali come vizi di postura o da come viene portato lo zaino.

COME INTERVENIRE? 

Una diagnosi precoce è fondamentale per impostare il trattamento più adeguato. La scoliosi, ad eccezione delle rare forme del primo anno di vita (che mostrano un’auto-risoluzione in oltre il 90% dei casi), è una patologia evolutiva, che non tende alla guarigione spontanea, ma ad una evoluzione progressiva. Più precoce è l’età di insorgenza, più grave è la scoliosi al momento della diagnosi, maggiore è il rischio di un aggravamento nel corso del tempo, potendo condurre in alcuni casi a deformità estremamente severe. Il trattamento deve essere personalizzato per ogni singolo paziente, e comprende la fisioterapia e l’utilizzo di busti ortopedici.

E LA CHIRURGIA PER LA SCOLIOSI

A differenza di quanto si possa pensare, l’intervento chirurgico può essere eseguito anche molto precocemente (fin dai 2 anni di età, in caso di scoliosi infantili molto aggressive), senza dover aspettare la “fine della crescita”, ricorrendo a sistemi dedicati per ogni fase dello sviluppo. Le tecniche moderne permettono di ottenere ottime correzioni anche in caso di scoliosi gravi, consentendo al paziente di riprendere a camminare dopo pochi giorni e di tornare a casa a distanza di una settimana dall’intervento.

Contenuti a cura del dr. Francesco Lolli, Ortopedico specialista in Chirurgia Vertebrale (www.francescololli.com)

La chirurgia per piede piatto nel bambino: è tempo per una riflessione?

Vostro figlio è stato da poco visitato e vi è stato consigliato un intervento chirurgico “facile” per correggere il piede piatto, ma avete molti dubbi?

Vi hanno detto che deve essere operato per evitare problemi futuri, ma in questo momento lui sta bene e non lamenta disturbi?

Purtroppo non siete i soli in questa condizione. E giustamente avete i dubbi che ogni genitore avrebbe: “Sto facendo la cosa giusta? Mi hanno detto che o faccio l’intervento in questa fascia di età o non potrò più farlo…”

Sono numerose le domande che rimangono aperte, soprattutto se si parla di chirurgia: proviamo a rispondere a qualcuna di queste!

IL PIEDE PIATTO: QUALE SAREBBE LA SUA STORIA NATURALE?

Il piede piatto rappresenta uno dei motivi più frequenti per cui viene richiesta una visita di ortopedia pediatrica, e, purtroppo, esso rappresenta anche uno degli ambiti più controversi. Tanto per cominciare, non esiste una definizione univoca per questa problematica. Secondo molti, il piede piatto rappresenta semplicemente una conformazione normale, nell’ambito della normale variabilità degli individui, e non può essere interpretato come una “deformità”. In effetti, la fase di pronazione (si parla di piede piatto pronato) rappresenta una delle fasi del normale appoggio del ciclo del passo.

Recenti studi di meta-analisi hanno evidenziato l’assenza di una definizione comunemente accettata per il piede piatto e di un comune metodo di valutazione. Questo porta a difficoltà nelle analisi epidemiologiche sia in età pediatrica, che nell’adulto, e conseguente difficoltà nel trarre conclusioni rigorose e scientifiche in molti studi.

Nei bambini che iniziano a camminare, la volta plantare è fisiologicamente piatta per la presenza di abbondante tessuto adiposo sottocutaneo nella parte plantare del piede; tale tessuto con la crescita si atrofizza. Inoltre, fisiologicamente il piede mostra uno sviluppo progressivo dell’arcata plantare, dell’appoggio del piede e un miglioramento del valgismo del tallone nel corso dei primi dieci anni di vita circa.

In sostanza, un’elevata percentuale di bambini presenta un piede piatto flessibile, che nella stragrande maggioranza dei casi andrà incontro a risoluzione spontanea.

Purtroppo, anche se la maggior parte andrà incontro a risoluzione, non esistono studi o metodologie o scale di valutazione che possano aiutare a prevedere quali piedi non mostreranno questo sviluppo fisiologico e rimarranno piatti.

L’altro aspetto però importante da sottolineare è anche che una grande percentuale di piedi che rimarranno piatti in età adulta non mostrerà conseguenze funzionali significative o problematiche cliniche e non necessiterà di chirurgia.

QUANDO È INDICATO UN TRATTAMENTO CHIRURGICO PER PIEDE PIATTO NEL BAMBINO?

E’ indicato nei pazienti che presentino qualche disturbo. 

Il bambino con piede piatto candidato alla chirurgia è principalmente quello che lamenta dolore. Tale dolore è generalmente riferito nella zona plantare-interna del piede o nella zona laterale (seno del tarso), è di tipo meccanico (cioè è correlato all’attività e non è presente di solito a riposo), deve essere significativo e rappresentare una limitazione funzionale per il bimbo, si accompagna spesso a una sensazione di facile stancabilità del bimbo nei muscoli della gamba, non si accompagna a segni di infiammazione (gonfiore, arrossamento, calore, versamento). Inoltre, non risponde a un ciclo di trattamento conservativo.

LA CHIRURGIA “PREVENTIVA “ O “PROFILATTICA” PER PIEDE PIATTO È GIUSTIFICATA?

“Mio figlio sta bene, non ha nessun sintomo e pratica sport, mi hanno detto però che, a causa del piede piatto, potrebbe avere disturbi da grande e quindi sarebbe meglio intervenire”. 

Spesso l’intervento viene proposto a bambini che svolgono una vita normale, suggerendo che se non viene operato, potrebbero manifestarsi in futuro dolori o problematiche a livello di piedi, ginocchia o mal di schiena.

Bisogna fare chiarezza!

E’ vero che alcuni piedi piatti potrebbero manifestare problematiche, ma questo succede in casi rari e non esistono studi che abbiano chiaramente dimostrato quali sono i piedi che nel tempo manifesteranno queste problematiche. 

La decisione chirurgica in questi casi, quindi, deve essere davvero una decisione ponderata, valutando rischi e benefici e va discussa con la famiglia chiaramente. 

Occorre prospettare alle famiglie le percentuali di successo e insuccesso e il rischio di possibili complicanze. Ad esempio, un bambino che non ha alcun disturbo ma presenta un piede piatto potrebbe in qualche caso a seguito dell’intervento arrivare ad avere un piede morfologicamente ben allineato ma con episodi di dolore. E questa situazione è difficilmente giustificabile.

IN COSA CONSISTE LA CHIRURGIA CORRETTIVA PER IL PIEDE PIATTO SINTOMATICO?

Esistono numerose procedure chirurgiche per la correzione del piede piatto

  • Artrorisi (calcaneo stop, endortesi, ecc)
  • Osteotomie
  • Artrodesi (fusioni di articolazioni)

Mentre le osteotomie e artrodesi sono tipiche del piede piatto a fine crescita, le artrorisi trovano il loro campo di applicazione nel bambino in accrescimento.

Le artrorisi sono procedure relativamente semplici. Si tratta di procedure caratterizzate dall’applicazione di un impianto (vite, spaziatore, ecc) a livello del seno del tarso. Tale impianto modifica i rapporti tra le due ossa che costituiscono la parte posteriore del piede (viene sollevato l’astragalo, che era scivolato, e viene fornito uno stop all’eccessiva inclinazione del calcagno). Viene inoltre ipotizzato anche un effetto “propriocettivo” cioè di stimolazione delle fibre nervose presenti a questo livello, che avrebbe nel tempo l’effetto di stimolare la formazione della volta plantare. La ferita chirurgica è molto piccola ed il recupero funzionale è piuttosto rapido: in genere al paziente è concesso di camminare quasi subito, con calzature alte o con tutori di protezione; possono essere associati, se necessario, tempi chirurgici accessori (allungamento del tendine di Achille, ripresa mediale, resezione scafoide accessorio, ecc).

Generalmente queste procedure trovano indicazione e hanno i migliori risultati tra i 9 e i 12 anni. In questa fascia di età la procedura sfrutta la crescita del piede, che viene modificato nella sua morfologia mentre sta crescendo; con la crescita, le strutture si riadattano alla nuova situazione. Col tempo, la presenza dell’impianto non è più necessaria e la vite può essere rimossa o riassorbirsi. 

È importante tuttavia tenere presente che questa fascia di età rappresenta una regola generale ma non rigida, ed è da rivalutare nel singolo paziente. 

La revisione della letteratura più recente circa il trattamento del piede piatto con artrorisi non offre certezze assolute. La maggior parte degli autori riporta (e questa è la nostra stessa esperienza), nei pazienti in età pediatrica con piede piatto flessibile sintomatico buoni risultati in termini di soddisfazione, qualità di vita e correzione radiografica, e ritorno all’attività sportiva.

E’ stato riportato un tasso di complicanze,  tra il 3,5 e il 19,3%. Le principali sono: problematiche chirurgiche: (iper/ipocorrezione, estrusione dell’impianto, errata dimensione dell’impianto), problematiche del materiale (rottura, degradazione), problematiche biologiche (sinoviti, reazioni da corpo estraneo, infezioni, dolore ricorrente/persistente, contrattura dei peronei, fratture del calcagno, ecc). A queste si aggiunge la possibile perdita di correzione nel tempo, dopo il riassorbimento o la rimozione dell’impianto stesso.

Considerazioni finali: un intervento semplice ed efficace, ma con le giuste indicazioni!

La procedura di artrorisi rappresenta effettivamente una procedura di semplice esecuzione e con risultati buoni nel breve termine nella maggior parte dei casi.

E’ fondamentale che tale indicazione venga proposta con le giuste indicazioni, principalmente in pazienti con piedi piatti sintomatici, pena l’esposizione dei bambini a un rischio di complicanze difficilmente giustificabili

Per saperne di più vai a leggere le nostre schede sull’argomento:

Piede piatto nel bambino: è davvero necessario un intervento chirurgico?

Piede piatto nel bambino: aspetti clinici semplificati per genitori e pediatri

Piede piatto: problema dell’ortopedico o del pediatra?

Piede piatto nel bambino: quando è indicato un trattamento chirurgico?

Piede piatto: interventi chirurgici. Evidenze scientifiche per una scelta consapevole e condivisa.

Toe Walking (deambulazione sulle punte), quadro fisiologico o devo preoccuparmi?

Molti genitori richiedono una visita ortopedica perché il loro figlio “cammina sempre in punta di piedi”, “se lo sgridiamo e si concentra cammina bene, ma appena si distrae torna sulle punte dei piedi”, “consuma la suola delle scarpe tutta davanti”.

Cosa è il Toe Walking?

Questo tipo di cammino, prevalentemente o costantemente in punta di piedi, viene definito “Toe-Walking” e può rappresentare un momento fisiologico dello sviluppo del bambino o essere sintomo di una patologia sottostante.

Questa scheda vi aiuterà a chiarirvi le idee!!!

Piede torto nei neonati. Semplici regole per non sbagliare.

Esistono diverse tipologie di “piede torto“: piede torto posizionale, metatarso varo, piede equino-varo-supinato (piede torto classico), piede reflesso e piede talo-valgo-pronato. Ognuna di queste forme presenta caratteristiche peculiari, ed ogni tipologia di “piede torto” necessita di un differente trattamento.

Saper distinguere un piede torto classico da una delle altre forme è essenziale.

Ecco qui una scheda semplice, pensata per pediatri, studenti e chiunque si stia avvicinando all’ortopedia pediatrica!! Ideata dai medici di OrtoPediatria, che da anni si occupano di piede torto congenito e pubblicano lavori sull’argomento: Manuele Lampasi (uno dei pochi medici italiani certificati dalla Ponseti International Association), Camilla Bettuzzi e Giada Salvatori (formatesi rispettivamente a NY presso il centro Ponseti guidato dal Prof.Lehman e ad Iowa City con il Prof. Morcuende erede di Ignacio Ponseti).

Clicca qui per aprire la scheda I VARI TIPI DI PTC

L’Ortopedia Pediatrica incontra l’Osteopatia: i medici di ortopediatria tengono lezioni per la Scuola Italiana di Osteopatia Pediatrica

Il medici di OrtoPediatria Manuele Lampasi, Camilla Bettuzzi e Giada Salvatori, insieme al chirurgo vertebrale Francesco Lolli, hanno partecipato alla didattica della Scuola Italiana di Osteopatia Pediatrica SIOP di Firenze, con lezioni sul tema lussazione congenita dell’anca, piede torto congenito, NeuroOrtopedia, dismetrie/eterometrie, ginocchio varo e valgo, morbo di Perthes, epifisiolisi, generalità sulle fratture in età pediatrica, scoliosi a esordio precoce, scoliosi dell’adolescente.

Nel dibattito si sono analizzate possibili convergenze con l’Osteopatia pediatrica.

https://www.facebook.com/pg/ScuolaItalianaOsteopatiaPediatrica/posts/

I piedi torti dei maschi e delle femmine hanno gravità simile, ma i casi bilaterali sono più gravi di quelli monolaterali

Lo afferma uno studio sul piede torto congenito, pubblicato nelle scorse settimane dagli ortopedici pediatrici Giada Salvatori, Manuele Lampasi e Camilla Bettuzzi del team di OrtoPediatria sul Journal of Children’s Orthopaedics, la rivista di riferimento della Società Europea di Ortopedia Pediatrica (EPOS). Allo studio hanno contribuito anche ex colleghi dell’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze. 

Il piede torto colpisce entrambe i piedini in circa metà dei casi, mentre in un’altra metà di casi, la condizione è presente su un solo lato. Inoltre i maschi sono colpiti con una frequenza doppia rispetto alle femmine.

Gli autori hanno analizzato in modo prospettico 97 bambini con piede torto congenito idiopatico valutandone le caratteristiche e la gravità (secondo la classificazione Dimeglio e Pirani, le più utilizzate al mondo).

Sia la gravità che il numero di gessi che la percentuale di tenotomie sono risultati significativamente più elevati nel gruppo di bambini colpiti bilateralmente.

Distribuzione dei punteggi di gravità secondo Dimeglio in caso di piede torto monolaterale e bilaterale. La linea orizzontale nei box rappresenta la mediana, gli estremi dei box rappresentano il 25° e 75° percentile

Un’altra caratteristica riscontrata, è che nei piedi torti bilaterali, il piede destro e il sinistro sono altamente correlati tra loro in termini di gravità iniziale (semplificando, è molto probabile che i due piedi abbiano una gravità molto simile e richiedano lo stesso numero di gessi).

Correlazione tra gravità (Punteggio Dimeglio) del piede destro e piede sinistro nei casi bilaterali

Quali sono le implicazioni di questi risultati per i futuri studi sul piede torto congenito?

Innanzitutto, i piedi torti monolaterali e bilaterali rappresenterebbero in realtà due “popolazioni” differenti, sia come caratteristiche cliniche che dal punto di vista patogenetico: facendo supporre una forte componente genetica sull’espressività dei casi bilaterali.

Le cause del piede torto congenito non sono ancora del tutto note, ma sono di tipo multifattoriale, cioè legate a diversi fattori ambientali e genetici. Studi epidemiologici come questo pubblicato dai medici di OrtoPediatria servono da supporto per comprendere meglio le cause alla base di questa patologia.

Un’altra importante implicazione dello studio coinvolge i ricercatori che lavorano in questo ambito. Il piede destro e il piede sinistro di un bimbo con piede torto sono fortemente correlati (in termini di gravità, numero di gessi e percentuale di tenotomie). Questo deve essere considerato nei futuri studi sull’argomento. 

Ad esempio in molti studi, per incrementare il numero di dati analizzati, si tende a considerare  nelle analisi il numero di piedi totali come se fossero elementi separati tra loro, ma questo non è corretto dal punto di vista statistico: andrebbero effettuate delle correzioni per superare questa criticità (ad esempio, analizzare solo il piede più grave), anche se questo implica una riduzione del numero totale di casi.

L’altro dato interessante emerso dallo studio è che non vi sono invece differenze di gravità dei piedi torti dei maschi e delle femmine.

Ecco il link al full-text dell’articolo sul sito del Journal of Children’s Orthopaedics:

https://online.boneandjoint.org.uk/doi/full/10.1302/1863-2548.14.190184